IX Periegesi in Magna Grecia – Diario

Palermo – Tyndaris – Aci Trezza – Siracusa –

Noto – Agrigento – Mazzara del Vallo – Palermo

31 Maggio – 7 Giugno 2012

 

I luoghi: Palermo, Solunto, Solanto, Tyndaris, Villa romana di Patti, Villa Romana di San Biagio, Laghetti di Marinello, Taormina, Acitrezza, Siracusa, Plemmirio, Palazzolo Acreide, Noto, Agrigento, Selinunte, Mazzara del Vallo, Segesta, Palermo

Giovedì 31 maggio. A Punta Raisi (Aeroporto Falcone-Borsellino, Palermo) ritrovo tra Concetta, Floriana, Laura, Nora e Primo. Noleggiamo una Renault Scenic, quasi nuova, comoda, ma tremendamente molesta con le sue spie sonore che ci perseguiteranno per tutto il viaggio. Marcello e Cristina sono in ritardo: ci raggiungeranno a Tyndaris.

Attraversiamo il caos di Palermo dove l’autostrada diventa all’improvviso strada urbana. Usciamo a Casteldaccia e ci dirigiamo, con un po’ di difficoltà, verso Solunto. L’antico abitato fenico di Kfra sembra ormai essere stato localizzato sul promontorio dell’attuale Solanto. Dopo la distruzione ad opera dei greci la nuova città verrà ricostruita più a nord nel piccolo altipiano del monte Catalfano. La nuova città sarà di impianto greco e tale rimarrà anche quando verrà ripresa dai cartaginesi. Imponenti le vestigia in un panorama magnifico sia verso la Conca d’Oro, che verso la piana di Himera. Solunto sarà dunque la città punica di confine svolgendo, all’opposto, lo stesso ruolo di Selinunte a sud. Solo che qui è una città punica che viene conquistata e distrutta dai greci che poi la ricostruiscono secondo i propri criteri: acropoli, impianto ippodameo, strutture templari greche. A Selinunte avremo invece una città greca che viene cancellata dai cartaginesi. E che si insedieranno poi su quel che resta, cercando per quanto possibile di sovvertirne il tessuto.

L’acropoli di Solunto è ancora da scavare e forse serba sorprese non da poco. Ripide stradine, pavimenti a mosaico, teatro e casa di Leda. Molto interessanti i reperti nei due antiquarium: all’entrata e all’uscita dal sito archeologico.

Si pranza al porto del vicino borgo marinaro di Solanto. Si mangia bene, si spende il giusto. Ci intratteniamo a pranzo (anche troppo!) e poi dobbiamo correre un po’ per arrivare a Marina di Patti, al nostro ormai solito Hotel “La Playa”. L’albergo è stato risistemato: bagni rifatti, spazi esterni rimodernati. Insomma è migliorato, anche se la tariffa è sempre la stessa. Dalle camere bella vista sulle Eolie.

Ci ritroviamo con Marcello e Cristina e insieme saliamo a Tyndaris. Stasera al teatro greco danno la “Andromaca” di Racine. Il solito scenario mozzafiato su capo Milazzo, lo stormire delle fronde al vento, un po’ di freddo …: tutto a creare la consueta magia. Racine è una scoperta. Con i suoi intrecci, l’indagine sulle vertigini emozionali dell’anima umana, sulla sua contraddittorietà, sulla implicita lotta per il potere che domina le cose della vita. Gli attori recitano bene. Ermione è la figura centrale, anche se l’opera è titolata ad Andromaca. Ermione è la prima eroina raciniana che già fa presagire il vortice di passioni della futura Fedra che tanto fu cara anche al Vate. Restiamo tutti soddisfatti, nonostante l’attesa delusa per la Andromaca di Euripide. La cena è a “La Capannina” di Mongiove. A tavola parliamo di Racine e dei programmi per il giorno dopo.

Venerdì 1 giugno. Ci ritroviamo con comodo alle 9.30 e subito ci dirigiamo verso la Villa Romana di Patti. Ora anche gli scavi sono visitabili (per ben due volte, negli anni passati, non era stato possibile!) e si rivelano interessanti.

Continuando il tema del “lusso tardo imperiale in Sicilia” ci trasferiamo alla Villa Romana di San Biagio (vicino alle Terme Vigliatore). Ancora più interessante di quella di Patti, anche se meno conosciuta. È letteralmente assediata dalla colata di cemento che brutalmente ha devastato le coste siciliane. Fra case che sono un concentrato di brutturie, rimane questa testimonianza eccezionale di una villa costruita in epoca ellenistica e poi continuamente abitata, con aggiunte e rimodellamenti, fino alla fine del mondo antico. Personale gentile, ma, dio mio, quanto! Basterebbe per tutta la Galleria degli Uffizi… Ora andiamo al mare.

È tempo del primo bagno della stagione. Tradiamo, questa volta, il bagno di Venere di Capo Milazzo per i Laghetti di Marinello. Ai piedi della sacra altura di Tyndaris dove sorgeva la città greco- romana – bizantina. Qui la cittadina di Marinello, anch’essa assai brutta, come tutti i manufatti cementizi sulla costa. Ma il mare è bello, pulito, di un colore cangiante. Parcheggiamo con difficoltà. C’è un nocchiero che, in cambio di una, tutto sommato modesta, ricompensa si offre di portarci ai laghetti e venirci a riprendere quando decideremo di tornare.

Primo preferirebbe camminare, ma il gruppo, in modo corale, decide che non si vuole faticare. Il nocchiero ci fa anche da guida. Ci racconta geografia, miti, leggende sui Laghetti. Nel suo racconto molta devozione nei confronti della Madonna Nera di Tindari. Bella anche l’immagine delle mareggiate che spazzano e continuamente modificano la lingua di terra. Senza però mai che venga meno l’immagine della Madonna, disegnata nel mare. In verità, osservando tutto dall’alto, non abbiamo mai notato alcunché. Ma si vede che la fede può molto…

Esploriamo i laghetti, poi facciamo il primo bagno. La spiaggia, sabbiosa, precipita subito in un mare profondissimo, di cui non si vede il fondo… Bagno, sole. Poi arriva la fame. Viene chiamato il nocchiero che subito ci riporta a riva. Ci consiglia anche un ristorante di terra (“Pane e Vino”) che, a suo dire, unisce qualità, quantità e buon prezzo.

Il ristorante è proprio sulla sella in cui, dalla litoranea, parte la strada per l’antica Tyndaris. Ci eravamo passati tante volte senza mai notarlo. Si rivela all’altezza delle descrizioni del nocchiero. Ci rimpinzano letteralmente di cibo e ne approfittiamo, forse anche troppo. Ci fermiamo un po’ al nostro albergo per riposare, lavarsi, dormire. Alle 18.00 ripartiamo per il teatro greco.

Stasera ci aspetta “Miles Gloriosus” di Plauto. Lo spettacolo era stato presentato nel 2011 al Plautus Festival di Sarsina. Reso bene, bravi attori, traduzione sciolta, regia efficace. Godibile. A maggior ragione in uno scenario mozzafiato come quello di Tyndaris. La sera scende con dolcezza, senza il vento fresco del giorno precedente. Finito lo spettacolo la macchina ci porta da sé al nostro ristorante “La Capannina” di Mongiove.

Sabato 2 giugno. Si parte alla volta di Siracusa. Cristina e Marcello decidono di accompagnarci fino a Taormina e poi da lì tornare indietro. Ci dirigiamo ad Aci Trezza. La mattina è tersa. Passando dallo stretto abbiamo la sensazione di poter quasi toccare le coste calabre. Percorriamo la costa ionica dove una bellezza naturale prorompente sembra voler sempre riemergere nonostante i drammatici interventi dell’uomo. Che, di anno in anno, continuano. Nonostante le frane, le alluvioni, le tragedie…

Nella zona degli amori fra Acis e Galatea e della rabbia di Polifemo, usciamo dall’autostrada e cerchiamo il mare cantato da Omero, da Ovidio, da Haendel, da Verga, da Visconti… La favola è bella e vale la pena narrarla. Ancora e ancora poi. È una storia che, come tante storie, ha un’origine greca. Forse costruita per cercare di spiegare la ricchezza di sorgenti d’acqua dolce di questa zona etnea. Ma è un tentativo di spiegazione razionalistica che è bene lasciare. Secondo il mito dunque Aci era figlio del dio italico Fauno e della ninfa Simeto. Era un piccolo Orfeo ed eccelleva nel suono del flauto. Si innamorò, corrisposto, della ninfa Galatea, ma questa era insidiata da Polifemo di cui aveva respinto le proposte amorose. Polifemo, offeso per il rifiuto della ragazza, sorpresi i due in tenero colloquio, uccide il rivale nella speranza di conquistare l’amata. Così l’armonia del flauto di Aci fu messa a tacere per sempre, ma Galatea, affranta, continuò ad amare Aci. Immense furono le sue preghiere agli dei affinché il suo amante tornasse in vita. Così gli dei concessero che il corpo morto martoriato di Aci diventasse terra (questa terra) e le sue ferite si trasformassero in sorgenti d’acqua dolce che tuttora scivolano lungo i pendii dell’Etna. Anche ora, non lontano dalla costa, vicino l’attuale Capo Molini, esiste una piccola sorgente chiamata dagli abitanti del luogo “il sangue di Aci” per il suo colore rossastro.

Sempre nei pressi di Capo Molini esisteva un modesto villaggio chiamato, in memoria dell’Orfeo di Sicilia. Aci appunto. Nell’undicesimo secolo dopo Cristo un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo dei sopravvissuti che fondarono altri centri. In ricordo della loro città d’origine, i profughi vollero chiamare i nuovi centri col nome di Aci al quale fu aggiunto un appellativo per distinguere un villaggio dall’altro. Si spiega così, ad esempio, l’esistenza di Aci Castello (appellativo dovuto alla presenza di un castello costruito su di un faraglione che poi fu distrutto da una colata lavica nell’XI secolo) ed Aci Trezza (la cittadina dei tre faraglioni). O anche di Aci Reale o Aci Catena.

È festa nazionale e il villaggio dei Malavoglia è invaso di gente. Anche qui tutto è devastato dalla proliferazione cementizia. Poche le testimonianze del mondo dei poveri pescatori del Verga. O anche delle immagini di Visconti. La sciara è invasa dai turisti e … dal cemento. I lavatoi dove andava Manuzza La Longa sono sommersi dall’asfalto. La casa del Nespolo (una casa di pescatori, una delle tante), in ricordo dei Malavoglia, è stata conservata a fatica fra condomini strabordanti. Resta la bellezza dei faraglioni, dell’isola Lachea. Ma ci vuole molta fantasia per pensare al ciclope, a Ulisse, a La Provvidenza di Padron ‘Ntoni… Del resto come non ricordare il sacello di Ifigenia in Aulis fra cementificio e autostrada. O il santuario di Eleusi con accanto la raffineria (cfr Cesare Brandi; ricorda Plinio).

Vediamo anche un matrimonio locale, con la chiesa addobbata, gli abiti da cerimonia, le divise militari, le cineprese. È una cosa tristissima… Senza neanche dircelo decidiamo di partire e andare a mangiare a Siracusa. Cristina e Marcello tornano indietro verso Naxos e Taormina.

Alle 14.00 siamo a Siracusa. Pranziamo a La Spigola. Un ristorante che ci è caro. Ci siamo venuti fin dalla prima volta. Tavoli e mura ricordano tante persone. Fra tutti il caro Plinio con cui, qui, molte volte abbiamo discusso dopo lo spettacolo al teatro greco: si è bevuto vino, si sono fatte citazioni e battute… Senso del tempo che passa e un po’ di tristezza meridiana.

Ma il tempo stringe: dobbiamo sistemarci e prepararci per lo spettacolo al teatro greco. Stasera si dà il “Prometeo incatenato” di Eschilo. Molto se ne era parlato con Plinio che lo aveva visto rappresentato solo al teatro di Colle dal Thiaso di Biotti.

Il teatro è pieno. Molti giovani, probabilmente studenti liceali. C’è l’attore che l’anno scorso ha interpretato Aiace che viene applaudito con insistenza. C’è anche il Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso che non applaude nessuno. Noi applaudiamo con forza Moreno Lifodi quando appare nell’emiciclo. Qualcuno si associa. Forse il nostro è conosciuto anche in terra di Sicilia?

Lo spettacolo è bello. Viene ben resa la violenza che si abbatte su Prometeo. La recitazione è concitata e, come sempre, le parti liriche di Eschilo (non certo di rilievo secondario) vengono sacrificate. Il convincente coro delle oceanine (I° Stasimo) ad esempio non sa valorizzare le note toccanti in cui tutta la natura partecipa del dolore di Prometeo:

Piange il mare lungo la risacca,

l’abisso che ricade,

l’Ade oscuro dal suono sordo,

le sorgenti dei fiumi sacre e pure:

L’interpretazione di Io è potente, dolorosissima, forsennata. La stessa (brava) attrice l’avremo domani nelle Baccanti, nel ruolo di Corifea. Insomma: non siamo al livello dell’Edipo Re del 2004, né della Medea di Maddalena Crippa. Ma siamo molto in là. Commentiamo alla Spigola. Di cui ormai siamo dei veri e propri pensionati.

Domenica 3 giugno. Il ritrovo è davanti al Tempio di Apollo alle 9.00. Purtroppo non possiamo visitare i sotterranei del Palazzo Comunale dove sono stati scoperti e valorizzati i resti del tempio ionico di Artemide. Gli scavi sono stati inaugurati a Dicembre con grande clamore mediatico e poi inesorabilmente chiusi. Unico risultato è che il cantiere edile in via della Minerva è stato rimosso.

Abbiamo scoperto che al Museo Orsi è stata approntata una mostra su “Dioniso e il Teatro”. Non la possiamo mancare. È interessantissima, spartana, essenziale, ben fatta.

Usciti dal museo ci dirigiamo in primo luogo verso il tempio di Zeus Olimpio. L’area templare è aperta (per ben due volte, in altri anni, l’avevamo trovata chiusa!). Siamo gli unici visitatori. Del grande tempio di Zeus solo lacerti. E pensare quanta storia è passata di qui: l’accampamento ateniese proprio qui davanti, il sacco cartaginese poco dopo, i furti dei tiranni di Siracusa prima, di Verre poi. Infine il tempo che ha fatto restare in piedi solo due monconi di colonna (da cui toponimo di “Do Colonne”) che però si vedono bene anche dalla Fonte Aretusa.

Riprendiamo la strada verso il Plemmirio. È Domenica ed è una bella giornata. Molti locali sono in zona per il bagno. Anche noi ci associamo. Scendiamo in una cala dove l’acqua è limpida e il mare splendido. La scogliera toglie alla vista tutto lo scempio che ha devastato la costa. Anche qui. Si riesce ad individuare il luogo dove probabilmente era stata tesa la catena che da Ortigia chiudeva tutto il Porto Grande e che servì a serrare in una sacca senza scampo la flotta ateniese. Da qui Ortigia si presta a scorci molto suggestivi e, almeno per noi, inediti.

Pranziamo in un ristorante “tutto pesce”, costruito e gestito da una cooperativa di pescatori. Ne mangiamo in grande quantità e di ottima qualità. La spesa è, in rapporto, assai contenuta.

Si ritorna a Ortigia per una piccola siesta. Alle 18.00 partiamo per il teatro greco. Che stasera non è pieno. Eppure lo spettacolo è molto bello. Stasera si rappresenta infatti “Le Baccanti” di Euripide. L’opera è ben resa, ben recitata. Di grande effetto le figure di Cadmo e Tiresia. Efficace anche la resa di Dioniso, la sua doppiezza e imprendibilità. Uno spettacolo che sarebbe piaciuto anche a Plinio. E a Riccardo… La sera siamo di nuovo a La Spigola.

Lunedì 4 giugno. Dopo la scoperta dell’anno scorso anche quest’anno ci dirigiamo a Palazzolo Acreide dove si tiene il Festival “giovane” del teatro antico. Una lodevolissima iniziativa dell’INDA che mette a disposizione il teatro greco di Palazzolo Acreide delle scuole superiori, italiane e non. Ognuna ha circa 1 ora e un quarto per rappresentare un’opera classica (latina, greca, ma anche della grande letteratura europea legata al mondo antico). In programma c’è, innanzitutto, “Le Nuvole” di Aristofane. Reso un po’ alla buona, ma piacevole: migliore nel complesso di un recente spettacolo visto al Metastasio in compagnia di Cristina e Daniela. Segue la “Elettra” di Sofocle. E qui siamo di fronte a un gruppo di giovani proprio bravo. Bravi anche i ragazzi che interpretano i personaggi principali: Oreste, Elettra, Crisotemide, Clitemnestra. Pilade è letteralmente esilarante. Al termine grandi applausi. Fra noi una discussione sulla figura di Elettra nei tre tragici.

Floriana non è venuta e ci dà appuntamento a Noto. Siamo costretti da nostri errori e da lavori stradali, a compiere un percorso assai complesso per i monti Iblei. La campagna siciliana è qui bellissima. Pochi i manufatti in cemento e questo basta. Vediamo il mare dall’alto: da una parte lo Ionio, dall’altra il canale di Sicilia. Passiamo anche dall’abitato preistorico di Castelluccio, che ha dato il suo nome ad una facies culturale dell’età del bronzo. Ma non ci fermiamo.

Raggiungiamo Noto all’ora di pranzo. Dopo una passeggiata fra chiese e palazzi barocchi ci fermiamo a pranzo in una simpatica trattoria che si chiama “L’antico Mercato”. Avremmo voluto andare a “Il Gattopardo”, ma oggi (lunedì) è chiuso. Come chiusa è la pasticceria Costanzo famosa per il suo gelato al gelso. Ce lo riserviamo per la prossima volta. Ritorniamo a Ortigia per la siesta.

Alle 18.00 ci ritroviamo per il teatro greco. Stasera è la volta della commedia: viene rappresentato “Gli Uccelli” di Aristofane. Uno spettacolo brillante e simpatico. Ma la regista sembra aver sacrificato molto alla spettacolarità. Fra canti e gag si perde lo spessore amaro di Aristofane: la sua critica al sistema democratico, il disincanto nei confronti di ogni utopia, il prevalere, nel consorzio umano, del lato terreno su ogni spinta ascensionale. La sera ceniamo a “La Tavernetta”.

Martedì 5 giugno. Bellissima giornata di sole. Si parte per Selinunte per la statale 211, non proprio la strada più agevole, ma comunque ci ripaga con un insistito alternarsi di panorami siciliani: dalle ravine dei Monti Iblei, alla grande piana di Gela, alla costa mediterranea fra Gela e Agrigento, a quella fra Agrigento a Marsala.

Breve sosta alla periferia di Ragusa. Salutiamo da lontano Gela, con la sua raggelante raffineria, pensando ai “campi ricchi di messi” (Frinico) dove è sopolto Eschilo:

“Qui, nei campi di Gela ricca di messi, è il corpo di Eschilo

figlio di Euforione, nobile ateniese. Il suo valore

lo sa il bosco di Maratona e il Medo dai lunghi capelli”.

Per il pranzo proviamo ad entrare a Licata, ma, tanto è lo squallore che, nonostante le molte reminiscenze antiche, preferiamo andar via. Oltre la strada segue il mare in un panorama affascinante.

Arriviamo ad Agrigento alle 14.00. Ci fermiamo ad un ristorante (“La promenade”) nella strada panoramica che passa attraverso la Valle dei Templi. Siamo soli, il personale è gentile, pranziamo bene. Poi ci dirigiamo a piedi al museo archeologico, splendido già nella sede: nel cuore della città antica, costruito intorno a quello che era il Bouleterion. Dentro poi una quantità di reperti impressionante, e anche di pregevolissimo valore estetico. Particolarmente suggestiva è la ricostruzione del tempio di Zeus.

Ci dirigiamo dunque verso Marinella di Selinunte dove abbiamo camere prenotate all’Hotel Admeto. Il nome è evocativo e l’albergo è bello e ben tenuto. Marinella di Selinunte è però uno di quei luoghi che sarebbero da cancellare dalla faccia della terra. C’è di fronte il Mediterraneo che si stende a vista d’occhio dalle nostre finestre e sulla costa un coarcevo di casotti con aggiunte, sopra elevazioni, terrazzi, ringhiere rugginose, serrami di anodizzato. Mancano i marciapiedi, auto parcheggiate ovunque, sporcizia, corredo di barattoli di plastica… Esercizi commerciali con insegne giganti e dai nomi altisonanti. Ceniamo in questo contesto, in una terrazza sul mare (nel senso di “costruita sopra”), con tanto di piloni sul bagnasciuga e oltre. Dalle finestre si vedono le rovine di Selinunte. Il personale è invadente, anche il conto è caro per il contesto. Tornando in albergo è scesa la notte e ha coperto le brutture con un manto pudico.

Mercoledì 6 giugno. L’albergo ha una bella terrazza sul tetto dove ci serviamo la colazione. La vista è bella e ariosa: verso il mare, le montagne. Basta non guardare in basso! Del resto il nostro albergo per ora domina, ma non lo sarà per molto. Di fronte si sta costruendo un altro edificio che probabilmente impedirà la vista mare…, ma non è detto che subito si provveda ad un ulteriore innalzamento del nostro!

È il giorno di Selinunte. L’ingresso agli scavi è vicino all’albergo: ci si potrebbe andare a piedi. Il luogo è di grande interesse e bellezza. Veramente suggestivo il tempio D, ricostruito con pietre originali negli anni 50. Ma suggestive anche le vicine strutture templari lasciate atterrate. L’area archeologica, immensa e non completamente scavata, ha tre raccolte antiquarie. Due sono chiuse. E anche la terza lo è per chi non va a bussare e chiederne l’apertura. Scopriremo che ci sono varie custodi, asserragliate dentro che ci vengono, con molta degnazione, ad aprire. Siamo gli unici visitatori. Del resto nessun cartello fa menzione della struttura, né del fatto che è aperta. Inoltre è la più lontana dall’ingresso.

Le rovine sono sparse in un’area amplissima. E pensare che la città ha avuto vita breve: due secoli di splendore. Poi una durissima fine e una sopravvivenza modesta e con popolazioni e stile di vita decisamente nuovi. Infine il progressivo abbandono che è durato più di mille anni.

Il primo insediamento di coloni provenienti da Megara Iblea avviene sulla collina che separa la foce dei due fiumi: il Selinos e il Cotone. Qui sono ben visibili le imponenti fortificazioni dell’acropoli e le prime strutture templari: il tempio di Zeus, il tempio di Apollo, di Artemide. Qui la città di impianto ippodameo, parzialmente modificato dopo la distruzione e il successivo ripopolamento punico. La collina è tutta fortificata. Quello che ora ben si legge sono le fortificazioni del IV° secolo, attuata da Timoleonte, ma per difendere una città ormai ben più ristretta.

Più a ovest dell’acropoli, insisteva uno dei due porti. E, oltre il fiume i templi di Demetra e Persefone. Ancor più in là una necropoli che si estendeva fino ai luoghi dove compaiono, strabordanti pericolosamente, le brutturie urbanistiche già descritte per Marinella. Ma queste appartengono ad un altro borgo che da occidente assedia la magnificenza della città antica.

A oriente invece ci sono le tre strutture templari descritte all’ingresso, di cui una, il tempio F, è stata ricostruita negli anni ’50.

La visita si protrae per tutta la mattinata. Ci ritroviamo all’uscita verso le 13.00 e decidiamo di trasferirci a Mazzara de Vallo per vedere l’Efebo Danzante. E anche pranzare. Mazzara è una cittadina che dà l’impressione di voler provare a riemergere dal degrado sociale e urbanistico post bellico. Le strade sono pulite. C’è un tentativo di ridurre e regolamentare il traffico privato. Basta poco e il clima decisamente cambia. Il lungomare è piacevole con molti ristoranti di fronte agli scafi dell’immigrazione irregolare, lasciati lì a marcire. Si pranza bene.

Poi ci concediamo la meraviglia del Satiro Danzante ospitato in una chiesa sconsacrata. Nel museo poche altre cose. Nessuna degna di essere accostata alla magnificenza del Satiro, bellissima scultura bronzea attribuita a Policleto.

Intorno al museo del Satiro, una serie di bei palazzi in corso di ristrutturazione. Veniamo notati da un personaggio locale che ci porta a vedere la Chiesa di San Michele, parte di un locale convento di clausura, officiata, ma solitamente chiusa. L’improvvisata guida locale è informato e avvezzo a portare in giro turisti.

Si prosegue la visita della città, in particolare quello che resta della città araba: il quartiere della casbah, che ora peraltro è ritornato, in gran parte, ad essere abitato da quelle popolazioni arabo berbere che lo avevano fondato al tempo della prima invasione araba della Sicilia (… per intenderci quella del IX° secolo). Una bella sorpresa: pulita, bei palazzi, in giro per la casbah, le chiese, il teatro Garibaldi. Qui, verso la zona che ora si chiama Torre Granitola, del resto avvenne lo sbarco e la prima testa di ponte che doveva portare alla permanente colonizzazione araba della isola. E qui avvenne anche uno dei primi atti formali con cui, due secoli dopo, il Conte Ruggero suggellò il potere normanno sulla Sicilia. Il quartiere arabo è stato probabilmente risanato dal degrado spicciolo, ma molto deve essere ancora fatto perché riappaia una bellezza che andrebbe cercata con cura oltre le mille sovrapposizioni attuali.

Al ritorno scopriamo un antico baglio ora ristrutturato a albergo e ristorante. Ci fermiamo per vedere l’albergo e il ristorante, ‘Il cuore di Dioniso’, a pochi chilometri da Selinunte. La struttura è stata restaurata con gusto e attenzione ai particolari. Spicca forte rispetto allo scempio generalizzato delle costruzioni circonvicine. La sera ceniamo lì, siamo i soli ospiti. Cucina, accoglienza, ambiente splendidi. E anche il conto è assai contenuto.

Giovedì 7 giugno. Dopo la colazione sulla terrazza dell’Admeto, prendiamo la strada per casa. La prima tappa è però a Segesta. Visitiamo con piacere la antica città degli Elimi, che fu pretesto per l’intervento degli ateniesi di Alcibiade in Sicilia. Eterna nemica di Selinunte, conobbe anch’essa notevole floridità e una progressiva ellenizzazione. Pur restando la popolazione etnicamente e politicamente siciliota.

Simbolo del suo grande passato è il tempio greco, mai compiuto. Che si vede ovunque nella vallata circonvicina. Di grande potenza e bellezza: non fu compiuto o si volle lasciare così perché dedicato ad un altare a cielo aperto per una divinità locale? Un altare a cui si volle dare la sacralità di un tempio greco?

Di fronte al tempio, sul colle contrapposto, sorgeva la città. In posizione ben difesa. Numerose le emergenze architettoniche di un insediamento che durò ininterrotto dalla preistoria al conquista normanna. Poi un progressivo abbandono. Ancora imponenti le rovine del teatro greco, sede in estate di manifestazioni varie. Ci sono i resti anche di un castello medioevale e forse l’unica testimonianza salvata di una moschea in terra di Sicilia.

Da Segesta riprendiamo l’autostrada per l’aeroporto di Punta Raisi (Palermo). Riconsegniamo l’auto e ognuno si incammina per il suo ritorno a casa.

È stato un bel viaggio.