Rodi e la Licia
XII Periegesi (2012)
La Periegesi di quest’anno è tutta particolare: un’isola greca e le leggendarie coste della Licia che le stanno di fronte. Ci siamo preparati su Rodi leggendo la storia recente del Dodecaneso italiano e della II guerra mondiale. Abbiamo rievocato soprattutto i vecchi miti sugli dèi e gli eroi locali: il culto di Latona (Lētó) e di Apollo particolarmente venerati in Licia, la Afrodite di Cnido, e gli eroi omerici Bellerofonte e Sarpedone, alleati dei Troiani, con tutti i loro retroscena favolosi, chimera compresa. Riccardo si era portato dietro il libro di Bachofen sulla Licia che dà una bella visione romantica di questa civiltà, a quei tempi considerata a torto o a ragione ‘matriarcale’.
Questa volta siamo in 12: Alberto, Astrid, Concetta, Floriana, Franco, Grazia, Laura, Nicoletta, Nora, Primo, Riccardo, Teresa.
Giovedì 30 agosto
Partiamo in maggioranza da Bologna, e solo alcuni di noi da Roma; il gruppo si riunifica a Rodi. Volo perfetto, al nostro albergo Semiramis ci incontriamo anche con Cristina e Eva, che sono già in vacanza a Rodi da un po’. Per cena andiamo tutti insieme a mangiare sul lungomare da uno che mi pare si chiamasse Mézes.
Secondo la leggenda (già in Omero) Rodi fu colonizzata da Tlepolemo, figlio di Eracle, che avrebbe fondato le tre città di Lindo, Ialiso e Kamiro divenendo re dell’isola. Partecipò alla guerra di Troia capeggiando la flotta di Rodi (citato nel ‘Catalogo delle navi’ Iliade, II, 654-657: il grande Tlepolemo Eraclide condusse da Rodi nove navi di rodii gloriosi…che abitavano Rodi ordinati in tre schiere: di Lindo, Ialyso e Kamiro. Li comandava Tlepolemo dall’inclita lancia). Dato che il dialetto di Rodi era dorico, l’eroe fondatore dovrebbe essere anche lui dorico, tanto più che era figlio di Eracle eroe dorico. Tlepolemo morì combattendo contro il re di Licia Sarpedone (Iliade V 657-659: Percosse Sarpedone il nemico in mezzo al collo, sì che tutto il passò l’asta crudele, e a lui gli occhi coperse eterna notte); Tlepolemo muore nel duello ma ferisce gravemente l’avversario, che viene salvato dai suoi compagni licii e da Ettore.[1]
Venerdì 31 agosto
Tutta la mattina a giro per la città di Rodi. Sul porto vecchio due colonne coi cervi ricordano un po’ le colonne sulla laguna davanti a palazzo ducale a Venezia. Forse era lì il Colosso di Rodi, o forse era sulla collina perché il suo faro si potesse vedere da lontano. Rodi ha avuto il suo massimo sviluppo in età ellenistico-romana, quando i rodioti gestivano quasi tutti i traffici marittimi del Mediterraneo orientale e oltre (lo dice anche Casson nel suo libro The ancient Mariners che è una bella storia della navigazione nel mondo antico). Sul fronte che guarda il mare gli italiani avevano costruito tutta una facciata di edifici nuovi: il palazzo del governatore, la cattedrale in stile medievaleggiante, l’hotel delle Rose e altri palazzi. Molte villette eleganti in stile anni Trenta si incontrano lungo i viali della cittadina. Visitiamo la città medievale fortificata, circondata da bellissime mura turrite. Dentro la città vecchia c’è il museo archeologico, disposto in una serie di stanzette che si affacciano tutte sul cortile centrale del palazzo. I materiali partono dal periodo proto-geomatrico. La città era stata fondata nel VI secolo a.C. ma ci sono tracce di frequentazione anche precedente.
Per pranzo ci insinuiamo in un dedalo di stradine, sbucando nella piazzetta del ristorante Romiόs (Ρωμιός cioè ‘il Greco’). Il posto è piacevolissimo, siamo seduti sotto immensi alberi di ficus, ci adagiamo sui divanetti coi cuscini. Cristina e Eva sono venute a mangiare a tavola con noi. Ottimi antipasti col pane condito, origano, salsine, tzaziki, le pietanze e infine il caffè.
Nel pomeriggio ci aspetta il palazzo del Gran Maestro dell’ordine dei cavalieri di S. Giovanni, o cavalieri di Rodi, gli stessi che avevano il castello anche e Bodrum. Ma questo è molto più imponente, con grandi mura e contromura, fossati, merlature e porte strette fra torri. Tutto l’interno è stato restaurato dagli italiani negli anni ’20-30. Ci sono anche molti mosaici antichi trasportati da altre isole come Cos. Al bar sulla via del ritorno nella parte moderna della città ci sediamo tutti in cerchio attorno a un tavolino a riposarci; io mi prendo un bel tè freddo.
Poi in albergo, dove io mi servo velocemente al buffet dell’hotel. Si deve infatti andare a teatro. Abbiamo i biglietti per le “Troiane” (Τρώαδες) di Euripide nel teatro all’aperto. Lo spettacolo è assai interessante, anche se l’allestimento è minimale e la compagnia poco più che amatoriale. Eppure fa una certa impressione… non avevo mai sentito la tragedia classica in greco. Ebbene, alle prime battute del prologo, solo a sentire il vocione di Poseidon che declama nella sua propria lingua (non è imprestata, è la sua vera lingua!), un brivido trapassa la schiena perché sembra che la voce venga direttamente dai millenni per reincarnarsi qui e ora. Il testo è possente, anche se scade un po’ nel battibecco fra Elena ed Ecuba. Resta la voglia di riprovare, magari in un teatro con scene più belle e ricche, e attori di livello, ma sempre in greco. Non si capisce quasi nulla, eppure colgo molte parole al volo qua e là (symphorá, anáthema, e tutti i nomi propri); la pronuncia è molto accurata, chiara e netta, direi bella. La parte tragicissima di Ecuba è forse quella che ha ispirato i versi dell’Amleto: ‘What’s Hecuba to him, or he to Hecuba,
that he should weep for her?’
Questa è anche la notte di luna piena (το πανσέληνο φεγγάρι, tò pansélino fengári, come spiega Teresa) e sparano fuochi d’artificio.
Sabato 1° settembre
La giornata è dedicata al giro dell’isola; abbiamo affittato due bei pulmini, uno azzurro intenso e uno celeste pallido. Usciamo da Rodi città dirigendo verso Lindos sulla costa orientale. Raggiungiamo il paesino con la spettacolare acropoli.
La parte bassa è piena di turisti che sciamano fra le stradine e i negozietti. Approdano anche diverse barche dal mare. Un grande via-vai, in cui si inseriscono anche i ciuchini. Infatti si possono noleggiare per affrontare la ripida salita all’acropoli, disseminata di scalini. Astrid e Nora ne approfittano e salgono sul ciuco, ma poi ridiscendono a piedi. Arrivando su al bellissimo castello si trova lungo la scalinata un grande bassorilievo nella roccia che rappresenta una nave romana, che funge anche da panchina per chi vuole sostare all’ombra. Lo Zerbetto compra le tovaglie ricamate dalle donne del posto. In cima c’è una chiesa bizantina e le colonne (troppo rifatte) del tempio di Atena restaurato. La posizione è straordinaria, a picco sul mare blu. I gabbiani volano sotto di noi nella luminosità dell’aria, mentre dal basso gli scintillii del mare increspato ci trafiggono gli occhi. Il gruppo si siede a leggere lungo la stretta ombra del muro.
Quando riscendiamo giriamo verso la seconda baia che sta sotto l’acropoli, e ci tuffiamo direttamente nella bellissima acqua dell’Egeo, azzurra tra le scogliere. Ma, non paghi delle fatiche già fatte, Primo e Riccardo sono disposti a soffrire ancora sotto il sole per salire sulle rocce fino alla grande, incredibile grotta che si apre proprio sotto al tempio di Atena. L’acropoli ci guarda dall’alto, mentre la grotta racchiude quel che resta dell’ombra. Ci raggiungeranno poi sul mare, felici dell’impresa e appagati dalla visita alla divinità ctonia. Poi si tuffano anche loro.
Arrivano in paese anche Cristina ed Eva con le loro valige, si sistemano in un Bed & breakfast di Lindos. Dietro la nostra mini-spiaggetta c’è un piccolo bar ombreggiato da una pergola, dove si può anche mangiare un’insalata greca; ne approfittiamo perché siamo tutti affamati, e ci prendiamo anche il caffè. Grazia si è stesa a prendere il sole su una sdraio. Io mi godo le nuotate.
Quando è l’ora di ripartire continuiamo il giro dell’isola in senso orario. Non arriviamo fino all’estrema punta sud, Capo Prassonissi, ma tagliamo a un certo punto verso la costa occidentale. Lì ci appare una zona selvaggia di costa deserta, senza abitati. Il mare da questa parte ventosa è leggermente mosso, tutto luminoso di un turchese chiaro spumeggiante. Un isolotto irto di scogli si profila davanti a noi.
Rodi sud-ovest
Alla guida delle macchine ci sono Primo e Astrid. Dalla strada ci sono diversi punti particolarmente panoramici verso il mare a occidente. Arriviamo poi a Kamiros, una bella città adagiata in pendio, che visitiamo nella luce pomeridiana. È una città ellenistica che degrada dolcemente verso il mare, che le fa superbamente da sfondo. Sarà per l’ora pomeridiana, ma a molti è rimasta nel cuore.
Da lì vogliamo andare anche a Ialiso, ma secondo gli orari ufficiali la zona archeologica è ormai chiusa. Non importa, la strada sale fra bellissime pinete, e noi continuiamo a andare per pura curiosità. Siamo ricompensati perché c’è un matrimonio nel monastero di Panagia Filerimos, costruito in stile gotico sul luogo di un antico monastero bizantino, nella zona dall’antica acropoli. Così questa volta il cancello è eccezionalmente aperto. Saliamo nell’ora dorata del tramonto. Più che dagli scavi siamo attratti dal matrimonio ortodosso, e con Astrid e Grazia ci infiliamo tra la gente dentro al chiostro, dove il pope sta officiando un rito lunghissimo, con lunghissime preghiere; la sposa si erge impavida nella sua veste bianchissima, adorna di nastri. Alla fine i testimoni e gli invitati escono di chiesa tenendo in mano i lunghi ceri bianchi, i lumi, i nastri di raso e le bomboniere. Non riusciamo a vedere l’uscita degli sposi, ma tutti sembrano elegantissimi. Scendiamo alle nostre macchine prima che si metta in moto l’ingorgo delle numerose vetture posteggiate sotto la scalinata della chiesa.
Riscendiamo sulla costa e, oltrepassato l’aeroporto, torniamo a Rodi nel nostro albergo Semiramis. Si cena da Agalma, dove la lunga attesa esaspera Primo.
Domenica 2 settembre
Per prendere il traghetto veloce per Marmaris andiamo al porto in taxi. Da lì si vede ancora meglio il fronte delle mura merlate della cittadella di Rodi. Facciamo le pratiche dei passaporti e dei biglietti, e in appena un’ora di aliscafo arriviamo in Turchia. Il porto di Marmaris è inondato di sole, passiamo il controllo passaporti e iniziamo l’iter della consegna dei pulmini. Uno grosso, grigio scuro, e uno piccolo bianco. Carichiamo tutti i bagagli, mettiamo l’aria condizionata a tutta stecca e partiamo verso ovest, verso la penisola di Cnido, dopo aver fatto benzina (anzi eurodiesel).
Il suggerimento di Primo, di deviare leggermente per veder il sito archeologico di Amos su un promontorio roccioso che guarda a sud, è subito accolto, ed è una fortuna perché è un posto veramente straordinario. Il piccolo promontorio è spianato, i resti sono scarsi (si vede bene solo il piccolo teatro), ma il luogo è magico e di travolgente bellezza, con la sua vista dall’alto sul mare turchino che arriva al golfo di Marmaris. Naturalmente Riccardo e Primo vanno fino in cima alla punta nonostante il sole cocente. Sotto ci sono due belle spiagge, una per parte, e dopo il percorso nell’aria secca e caldissima puntiamo direttamente su una di esse, dove l’acqua è di un blu incredibile. Accanto alle nostre macchine, lasciate sulla strada principale, è arrivato un motorino con un altoparlante che riproduce la voce del muezzin. Sulla spiaggia c’è una tavernetta, alcuni ombrelloni, l’acqua è limpidissima e invitante. Al primo tuffo si sente che è molto calda ma soprattutto salatissima! Prendo un’insalata sotto la pergola e continuiamo a fare bagni perché l’aria è ancora molto calda e il mare è meraviglioso e trasparente come da poche parti.
Quando riprendiamo il viaggio i pulmini carichi faticano non poco sulla salita. Andiamo verso Datça, cittadina che dovrebbe situarci in posizione strategica per arrivare a Cnido comodamente. Ma prima riscendiamo ancora una volta sul mare perché abbiamo visto dall’alto una baietta invitante. C’è un villaggio turistico sulla spiaggia, dove ci lasciano entrare alzando la sbarra. C’è un bar sul mare, ombreggiato dai pini. [come si chiama questo posto???] Qualcuno nuota, altri bevono birre e aranciate. Primo e Riccardo si mettono a lavorare al computer nella brezza fresca.
Risaliti poi sulla strada principale, vediamo panorami mozzafiato, col mare da due lati, le coste di Bodrum non lontane, le isole all’orizzonte e a nord tanti profili di penisole che si protendono in mare. Da un lato le isole greche di Simi e Rodi, più avanti Cos, dove siamo stati due anni fa. Il vento da nord spazza il mare scuro e tutta la lunga penisola. Appena arrivati a Datça al nostro albergo “Mare” alcuni si rituffano nell’Egeo, ma ormai è venuta giù l’ombra. Per cenare troviamo una taverna sulla spiaggia, dal nome turco poco memorizzabile, dove ci danno un’ottima spigola arrosto.
Lunedì 3 settembre
Non tenterò nemmeno di descrivere l’indescrivibile bellezza di Cnido. Andando verso ovest, verso la punta della penisola, passiamo fra monti e pinete, villaggi agricoli e distese di mandorli, i cui frutti vengono venduti a sacchetti lungo la strada, insieme al miele e alle olive, da contadini solitari appostati sotto un olivo o raccolti in gruppi familiari seduti per terra. In vista della punta di Cnido siamo costretti a fermarci per fare foto del panorama eccezionale. Davanti a noi si vedono i profili di isolette greche sparse un po’ da tutte le parti; a destra si coglie anche la coda di Cos. Mare blu, qualche battello in navigazione, calette deserte.
Sugli scavi di Cnido si paga il biglietto per entrare nella grande città ellenistica, distesa in posizione privilegiata sul pendio che scende al mare. Proprio di fronte alla riva blu c’è un bel teatro, piccolo ma tutto di marmo, di colore chiaro lattiginoso. Oltrepassate delle colonne eleganti e una grande scalinata, io e Astrid troviamo una spiaggina che sta dalla parte opposta a quella dove si è tuffato Riccardo (la conformazione geografica è quella di un istmo fra i due mari). Nessuno ci segue; ci immergiamo nell’acqua verde limpidissima, sulla destra si apre il mare di Bodrum. Intanto il gruppo dei Periegeti sale su per le rovine della città, fino al santuario di Afrodite cnidia, quello famoso per cui Prassitele fece la celebre statua. La posizione è straordinariamente panoramica, si vede il mare dall’alto, di un blu intenso.
Poi sotto la tettoia di un piccolo bar-ristorante mi metto con Franco a aspettare il resto del gruppo, godendoci la brezza di mare all’ombra. Per mangiare non c’è molta scelta, ma troviamo comunque insalata russa, insalata di polpo, e acciughe. Il cibo è abbastanza caro, ma il luogo incantevole; il gestore è un omone infilato in una grande maglietta color fucsia, con occhi azzurri, che confessa di essere finito in questo posto solitario ‘per i casi della vita’. Poi andiamo a fare molti altri bagni nella spiaggetta sottostante, che ricorda vagamente quella di Palecastro a Creta. Ci tratteniamo a lungo per riempirsi gli occhi luce e di mare. Ripartendo non andiamo subito a Datça, ma cerchiamo un altro posto di mare e scendiamo quindi a Mezudiye, che coi suoi sassolini mi ricorda la spiaggia di Norsi all’Elba. Anche qui facciamo il pieno di sole, di mare e di nuotate perché domani sarà una lunga trasferta quasi tutta terrestre.
A Datça torniamo a cena nella stessa trattoria sulla spiaggia, ma questa volta prendo il pollo sauté, mentre altri sperimentano il calamaro ripieno e pesci vari. Il cibo è ben condito e speziato.
Martedì 4 settembre
È il giorno della lunga trasferta dalla nostra penisola, che appartiene ancora alla Caria, verso la Licia vera e propria. Ripercorriamo la bellissima strada di Marmaris in senso inverso. Dopo Marmaris la strada è a 4 corsie, nuova e molto scorrevole. Oggi ci aspettano molte cose da vedere: gli scavi di Xanthos, di Letoon e di Patara; poi dobbiamo raggiungere il nostro albergo a Kalkan. Ma il pulmino grande si mette a fare le bizze proprio adesso. Per fortuna eravamo partiti presto, perché ora appare una spia minacciosa sul cruscotto, che dice che abbiamo grossi problemi all’iniezione e pare si vada con un cilindro in meno. Infatti già da ieri ci eravamo accorti che il nostro trabiccolo non tirava per niente. Non sono accomodature veloci, neanche trovando il meccanico giusto. Nora ha l’idea geniale di cambiare subito il veicolo, e telefona all’autonoleggio che ci porti un pulmino sostitutivo nella città di Fethiye, davanti a quello che nell’ultimo giorno di Turchia dovrebbe essere il nostro albergo. Il noleggiatore acconsente e si fa trovare nel viale che porta al centro della città, ci viene incontro e si mette lui alla guida per fare manovra; posteggia davanti alla loro agenzia e ci dà un altro pulmino già pronto, più grande e con tendine (un po’ funeree, devo dire). Siamo a cavallo!
Abbiamo perso un’ora di tempo, ma è andata bene. Mentre si cambiava il nostro veicolo molti sono corsi ad ammirare il grosso sarcofago licio che c’è tra i viali della città. È il primo che vediamo di questo genere (ne vedremo moltissimi altri) e ci meraviglia l’altezza, perché è grande e sollevato su un piedistallo. Ripartiamo veloci verso Xanthos. Per la strada incontriamo grandi assembramenti di gente che seguono un corteo di macchine ricoperte dalla bandiera nazionale turca. Non si capisce se è una manifestazione patriottica, un corteo autorizzato o una protesta.
Dell’antica città di Xanthos, capitale della Licia, restano bellissimi scavi, da cui emergono un grande teatro e tombe monumentali. Peccato che il clima cocente mi impedisca di andare molto in giro. Trovo un provvidenziale caffè turco alla biglietteria, che mi sorbisco seduta all’ombra; solo Primo, Riccardo e Laura ce la fanno a salire sotto il sole sulla piccola acropoli. Io sono incuriosita da un gruppo di giovani archeologi dell’università di Antalya che stanno ancora lavorando. Riconosco il clima che si crea fra gli scavatori in questi siti; con Alberto attacco discorso con loro un po’ in inglese e un po’ in tedesco. Poi ripartiamo per Patara, traversando grandi valli ubertose, ricche di agricoltura e belle coltivazioni. Una delle cose migliori della Turchia sono questi fantastici ortaggi e bellissima frutta, che sono sempre freschi e succosi, “a kilometri zero”, a maturazione naturale e quindi dolci e saporiti.
Patara era il porto, oggi insabbiato, della vicina Xanthos. Ci si affaccia su una straordinaria spiaggia bianca, lunga kilometri, dove il mare si frange in onde che, mutatis mutandis, potrebbero ricordare la Versilia. Ci sono anche ombrelloni e una baracca dove si può mangiare, ma anche tanta spiaggia libera inondata di luce chiara che risplende sui sassi bianchi. Non possiamo non fare il bagno fra le onde di questo Mediterraneo. Poi mangiamo un boccone (io prendo yogurt con frutta) nella baracca un po’ sordida, dove comunque beviamo e ci riposiamo all’ombra. In questa costa del sud non arriva il fresco meltemi delle isole greche, e il clima caldo mi abbatte. La città antica di Patara è monumentale: un grande teatro ben conservato, il bouleutérion della Lega Licia (molto restaurato ma bello), strade e colonnati; faccio svariate fotografie. Il regime della lega delle città licie passava per essere un modello di democrazia; chissà.
Torniamo poi al santuario di Latona (Lētóon), dea madre particolarmente venerata in questa regione. A Lētóon molti resti sono ora scivolati nell’acqua, da cui si innalzano le colonne; ma restano grandiose vestigia: il tempio di Latona è ovviamente il maggiore, poi quello di sua figlia Artemide, e un bel teatro romano di pietra grigia. Franco e Primo trovano una grande vite da cui si mettono a piluccare l’uva. Eccoci tutti seduti sulle belle gradinate del teatro antico; Riccardo si piazza davanti a noi per declamare a gran voce il discorso funebre di Marco Antonio sul corpo di Cesare: Friends, Romans, countrymen, lend me your ears! I come to bury Caesar not to praise him…Le sue parole risuonano nell’ottima acustica del luogo. Applausi. Ormai siamo nella luce del tramonto, che solo di riflesso illumina le nostre scalinate. Sedersi nei teatri è sempre stato un particolare piacere delle nostre periegesi.[2]
Arriviamo a Kalkan, cittadina collocata in forte pendio sul mare, dove scendiamo all’hotel Pirat, pubblicizzato al massimo. In realtà sono assai disordinati nell’assegnarci le camere, e non esistono ascensori nonostante l’albergo sia nuovo, per cui dobbiamo salire moltissime scale. Astrid e Franco sono un po’ sacrificati nella posizione delle rispettive camere. Ma c’è una magnifica terrazza con piscina sospesa in vista del mare, e un buffet all’aperto pieno di profumati antipasti e dolcetti turchi. Essendo stanca resto lì a mangiare, senza andare per una volta a trascinarmi in giro per la città in cerca di ristoranti. Anche Riccardo si ferma con me, perché ha da lavorare al computer e non vuole fare tardi la sera.
Mercoledì 5 settembre
Partiamo verso est percorrendo la strada litoranea che va verso Kaş e arriva poi fino a Antalya. I luoghi sono bellissimi, ricordano in qualche modo la costiera amalfitana; solo che qui tutto è più selvaggio, meno abitato e antropizzato. A ogni curva si aprono nuove visioni di mare azzurro intenso, rocce chiare un po’ aranciate, piccole spiagge deserte coperte di sassini bianchi, e improvvise grotte che si aprono nel fondo delle anse e delle pieghe più strette della costa. Questo non è più l’Egeo ma il Mediterraneo orientale. Dritto davanti a noi c’è solo l’Egitto. Pochissime imbarcazioni in vista. Ma qualche isolotto costiero orna la riva, e si vede vicinissima l’isola di Megisti (Mεγίστη) o Castelόrizo, che è greca e sembra quasi di toccarla; lì hanno girato il film “Mediterraneo”. Dalla cima del suo monte le antenne della telefonia greca ci inviano messaggi che raggiungono i nostri telefonini, che su suolo turco ci comunicano il loro avviso “benvenuti in Grecia”.[3]
Costa Sud
Circolano ancora in Turchia molte vecchie Renault degli anni ’70, che evidentemente hanno avuto molto successo da queste parti. Giungendo verso Demre cerchiamo l’antica città di Myra, non lontana dal mare. Nel IV secolo a Myra fu vescovo San Nicola, difensore dell’ortodossia. Nell’antica città si visitano resti imponenti: dietro al grande teatro si ergono le rupi rossastre in cui sono state traforate tantissime tombe monumentali, o addossati grandi sarcofaghi di stile licio. C’è una folla impressionante composta in gran parte di turisti russi, e presto capiamo il perché: Lì vicino c’è la basilica paleocristiana di S. Nicola, col sarcofago originale. I pellegrini russi si affollano lì davanti, si inchinano a pregare, si fanno il segno della croce alla maniera ortodossa, ma la tomba è vuota: è stata profanata già nell’XI secolo dai mercanti baresi che hanno trafugato le reliquie del santo portandole a Bari.
Kekova-Simena
Il mare è vicino: andiamo ad Andriaki, che era l’antico porto di Myra. Ma oggi è impaludato e non si vede un punto di costa adatto a fare un bel bagno. Ci viene subito incontro un barcaiolo turco che convince Riccardo a fare la gita in barca all’isola di Kekova. Saliamo tutti a bordo e comincia una dolce navigazione nel mare blu. Sulla sponda dell’isolotto roccioso di Kekova ci sono i resti dell’ antica città di Theimussa, mezza inabissata; scale e muri scendono nell’acqua. Non si può fare il bagno qui perché è una zona archeologica protetta, ma l’acqua è meravigliosamente limpida, di colore smeraldino. Il bagno lo facciamo un po’ più in là. Poi traversiamo il piccolo stretto per andare a mangiare sulla terraferma nel sito dell’antica Simena. Accanto a noi un sarcofago licio emerge dall’acqua, mezzo sprofondato nel mare azzurro. Naturalmente Riccardo cerca di entrarci dentro. Noi ci sediamo in una minuscola taverna sul mare, dove il tavolo è circondato da ibiscus rossi. Quando finiamo di pranzare sono già le cinque! La barca ci porta davanti a una bella grotta marina, dove molti di noi vanno a nuotare nell’acqua blu. Ripartendo con le nostre macchine verso Kalkan dove passeremo una seconda notte, ci fermiamo a Sura, dove si ergono nella campagna solitaria diverse tombe licie monumentali e giganteschi sarcofaghi. La strada viene ripercorsa a ritroso, verso ovest, e inseguiamo il sole che sta rapidamente tramontando. Infine scendiamo su Kalkan quando è già tutta illuminata.
Sarcofaghi a Simena
A cena sulla terrazza dell’albergo, Alberto ci spiega la sua teoria per cui bisogna che ceda per forza alla tentazione di mangiare i dolci: infatti bisogna contribuire al successo professionale del cuoco, che potrebbe essere un precario a cui scade il contratto proprio oggi! È nostro dovere quindi aiutare la sua carriera facendo vedere quanto è apprezzato dalla clientela.
Giovedì 6 settembre
Si riparte di corsa verso est per arrivare fino a Antalya, l’antica Attalia. Ripercorriamo tutta la magnifica strada costiera. Quando arriviamo a Olympos ci rendiamo conto che il posto è pieno di macchine, bus turistici, valanghe di gente che vanno al mare, cercano campeggi e pensioni tra le baite di legno che sono tipiche di questo posto. Il luogo prende il nome dal vicino monte Olimpo, o fu così battezzato dai suoi fondatori seguaci di Alessandro? (e quindi, in ultima analisi, di origine macedone).
Noi ci incamminiamo nel lungo percorso che porta alla foce del fiume. Su ambedue le rive giacciono i resti archeologici dell’antica città licia e ellenistico-romana. In un groviglio di rami e radici si scoprono nell’ombra degli alberi alcuni grossi sarcofaghi; altri ce ne sono in riva al mare. Tutti sono stati purtroppo spaccati da antichi saccheggiatori. Accanto alla spiaggia di sassi bianchi c’è un castello genovese arroccato sulle ultime balze dei monti che degradano da grandi altezze fino a qui sul mare, dove appaiono come ripide gobbe rivestite di verde. La spiaggia è bellissima e luminosa, frequentata da gente che viene a piedi e da barche che arrivano dal mare. L’acqua, cristallina e verdissima, è percorsa da un’insolita corrente fredda che ci fa molto piacere perché il clima di questa costa non è ventoso come sull’Egeo. Qui c’è anche un turismo locale turco.
Dopo aver vagato attorno fra le rovine e esplorato le rive del fiume, troviamo una modesta tavernetta che si rivela molto simpatica. Come quasi ovunque in Turchia ci sono i gelati Algida e in frigo il caffè freddo della Nestlé. Il gestore è sorridente e ci accoglie molto bene, è svelto e gentile. Parla inglese ma ci racconta che ha studiato anche un po’ di tedesco a scuola. La moglie prepara la pasta del pane vicino a un fornetto rotondo, la stende col matterello come fosse una pizza, poi viene messo in un forno a legna. Arriva calda o ben lievitata sulle nostre tavole, soffice; una via di mezzo fra il pane indiano e la nostra pizza. Mi siedo a tavola, ma altri tavolini non sono forniti di sedie ma di divani con cuscini per mangiare semisdraiati. Accanto a noi c’è una ricca famiglia musulmana: lui è arabo, lei uzbeka, con due figli. L’atmosfera è di distesa confidenza con l’ambiente; la spesa molto contenuta. Prima di rimettersi in moto leggiamo il passo su Bellerofonte e la sua leggenda.
Con le macchine risaliamo su per le pinete che ricoprono quasi tutti questi monti. L’Olimpo si eleva isolato e molto a punta davanti a noi. Il nome era diffuso su tutte e due le sponde dell’Egeo fin dalla preistoria, oppure è stato esportato da una parte all’altra? Magari da est verso ovest?
È ormai pomeriggio inoltrato quando si raggiunge la bella Phaselis, sparsa fra i pini di una dolce costa appena digradante. È una città romana con acquedotto e teatro. Ma soprattutto c’è una deliziosa spiaggia dove i periegeti si buttano poco prima che i raggi del sole spariscano nell’ora del tramonto. Facciamo delle belle foto a tutto il gruppo galleggiante che sorride all’unisono, radunato nell’acqua.
Ripartiamo per Antalya, che dista 50 km. La città è molto grande e dispersiva, piena di traffico. Fatichiamo a trovare il nostro albergo Best Western, e ci facciamo dare indicazioni dai tassisti. L’hotel è molto confortevole, e io ci rimango anche a mangiare (sulla terrazza all’aperto c’è un buon buffet) perché sono ormai stanchissima. Gli altri vanno nella città vecchia a cercare un posto carino sul porto, che però si rivela, dicono, molto caro.
Venerdì 7 settembre
La mattina non vogliamo perdere il museo di Antalya, dove andiamo coi taxi. Raccoglie le statue monumentali della città romana di Perge, dove non siamo andati perché è a est di Antalya. Guardiamo il museo comodamente, con tutta calma, poi dobbiamo tornare a prendere i nostri pulmini in albergo. Si parte per Termessos, un posto di montagna che non è nemmeno in Pamfilia (come Antalya), ma in Pisidia. Quando finalmente imbocchiamo la strada giusta, voltiamo a sinistra in una zona boscosa. Tra i pini c’è un piccolo bar dove compriamo qualche genere di conforto da portarci dietro. Saliamo su verso la zona archeologica. La strada s’inerpica a lungo tra la folta vegetazione, con molti tornanti, fino a più di 1000 metri di altitudine. Come venne in mente a Alessandro Magno di assediare questo nido d’aquila incassato fra le rocce?
Astrid guida il nostro pulmino scuro, che in confronto al primo che avevamo ha un motore notevolmente potente. Quando arriviamo al casotto del custode Mustafà (a cui consegniamo i piatti usati) lasciamo le macchine sotto gli alberi e ci guardiamo intorno. Tra le rupi che incombono si vedono a destra i resti del tempio di Artemide, a sinistra la necropoli. Davanti ad Artemide Grazia si sdraia a prendere il sole. Siamo in alto ma fa molto caldo anche quassù.
Vado a esplorare la necropoli con Franco e trovo una quantità incredibile di giganteschi sarcofaghi licii mezzo scoperchiati, ruzzolati, smossi come da un terremoto. Lì c’è anche la cosiddetta tomba dei leoni, per i due leoni in rilievo, scolpiti nella pietra. Io poi con Grazia, Franco, Teresa e Floriana vado a riposarmi all’ombra, mentre il gruppo sale a visitare tutta la zona, arrivando fino allo spettacolare teatro, sospeso tra i monti in un punto vertiginosamente panoramico.
Alla partenza ci aspetta un lungo tragitto verso Fethiye, la nostra destinazione. Traversiamo direttamente il paese passando dall’interno, ripercorrere la costa infatti sarebbe lunghissimo. Astrid e Franco si alternano alla guida del pulmino scuro. Siamo affamati e cerchiamo un posto per mangiare, che si concretizza ben presto in una taverna lungo la strada, gestita da giovani divertiti dalla nostra presenza, svelti e organizzati. Mangiamo sul prato del giardino, fra le siepi annaffiate (Riccardo dà di mano alla sistola), dove passeggia anche una bella oca bianca. C’è un bar e ci danno il caffè; ma prima ci serviamo di varie insalate (“insalata del pastore”), formaggi e tzaziki, un pasto che da leggero che doveva essere sta diventando un vero pranzetto.
Termessos – foto Astrid
Bisogna scappare perché ci aspettano molti chilometri. Traversiamo bellissime pendici di monti coperti di pini; poi gli alberi si diradano e cominciano vallate verdi di pioppi fiancheggiate da pendii montani brulli e rocciosi, di un bel colore beige rosato. Moltissime greggi di capre scure pascolano dappertutto. Sembra di stare in Asia. Così mi immagino nella mia fantasia l’Asia centrale, e ho visto fotografie della Persia che somigliano a questo paesaggio. La strada sembra non finire mai; ci sono cartelli stradali con nomi divertenti, come Korkutelli, che sembra il nome di qualche re ittita come Mutawalli! Franco guida il pulmino grigio, ha voglia di correre e senza accorgersene sorpassa Concetta che è alla guida di quello bianco davanti a noi.
Quando arriviamo sul mare a Fethiye, sbarchiamo al nostro albergo Marina Vista, il più bello che abbiamo avuto. È piccolo e carino, l’architettura moderna è bellissima e di buon gusto. Sotto c’è una piscina col bar, dove Nora va a rilassarsi con una birra. C’è anche un ristorante in giardino, sulla riva della baia. I camerieri ci sistemano in una lunga tavolata sotto gli alberi, con le candele accese, e ci serviamo al buffet ben fornito. Molta verdura, pesce fritto, formaggi involtati nel prezzemolo, e molte cose buone; la frutta è squisita. La sera il clima è raffrescato e ci rilassiamo molto piacevolmente, chiacchierando e ridendo più del solito. È il momento di discutere e decidere della prossima periegesi. Si discute anche la mia proposta (la via Egnazia fino a Costantinopoli e al Mar Nero),[4] che però non raccoglie nessun entusiasmo, e vince invece il progetto di tornare in Elide con un’incursione sull’isola di Cefalonia (in alternativa: Cipro).
Sabato 8 settembre
La mattinata a Fethiye è libera; prendiamo l’autobus di città per andare al museo archeologico, che è piccolo, ma contiene una documento unico: la stele trilingue con iscrizioni in greco, aramaico e licio. Proviene da Letoon ed è quella che ha consentito la comprensione e traduzione della lingua licia. È una lingua anatolica affine al luwio, (e quindi anche all’ittita), meno documentata di questo ma ormai comprensibile. È di discendenza indeuropea, ma piuttosto lontana dal greco. Il suo alfabeto invece è derivato proprio dalle lettere greche.[5] Con Astrid andiamo a fare shopping fra i negozietti della città, dopo un ottimo caffè sul lungomare. Incontriamo Primo, Laura e gli altri che sono saliti sul colle dell’antica città e sono andati a vedere altre tombe rupestri monumentali. Decidiamo di mangiare in una taverna nascosta dietro il mercato del pesce, dove mangiamo bene all’ombra della tettoia, pietanze molto profumate e speziate, tipiche della Turchia orientale.
Nel pomeriggio ci prepariamo a partire, il nostro traghetto veloce parte alle 5 dal porto. Lunghe attese per le pratiche dei passaporti, ma poi saliamo a bordo, tutti fuorché Riccardo, il cui passaporto sdrucito ha indispettito i funzionari di polizia. Alla fine i Turchi lasciano partire anche lui, lo accogliamo a bordo con un sorriso, mentre Grazia tira un sospiro di sollievo. Alle 7 arriviamo a Rodi. Sembra di tornare a casa, la vista della città ci è ormai familiare, riconosciamo i bar e le strade dove siamo stati. Il nostro tassista è un vecchietto delizioso e civilissimo che sa parlare italiano. Ritroviamo il nostro albergo Semiramis, e per la cena torniamo passo passo da Romios nella città vecchia. Con grande piacevolezza ci adagiamo nei divanetti, sotto il grande ficus. Una dolce sensazione di essere di nuovo in Grecia: ritroviamo il profumo della moussakà, la birra Mythos, il pane tostato e condito, le salsine. Si beve, si fuma, si ridiscute di tutto. Per qualche motivo si rimette ai voti la mèta dell’anno prossimo. Il ballottaggio è fra Cipro e Cefalonia-Elide. Vince Cipro per un voto. Già i cervelli si mettono in moto, cominciano a pensare alla logistica, alla divisione politica dell’isola, ai siti archeologici più importanti da vedere, al mito di Afrodite che qui è nata, al dialetto cipriota, al sillabario cipriota derivato dalla Lineare B… e via, scorre inarrestabile il flusso dei pensieri incuriositi.
Domenica 9 settembre
La mattina, invece del muezzin che ci svegliava alle 5 e mezzo, si sente una campanina ortodossa. Torno al ristorante dove abbiamo cenato, per cercare una mia sciarpetta che ho dimenticato lì fra i cuscini del divano; ma è ancora chiuso, e devo tornare perché si avvicina l’ora di partire. Tre taxi velocissimi ci portano all’aeroporto di Rodi, dove il nostro aereo parte in orario. Floriana, Riccardo e Grazia non vengono sul nostro volo, perché vanno ad Atene dove si fermano ancora un giorno; lì Riccardo deve ovviamente rivedere la Via sacra per Eleusi. Noi invece arriviamo a Roma Ciampino, che è un aeroporto piccolo e più vicino alla città di Fiumicino. Sembra comodissimo; un ottimo bus ci porta alla stazione in mezz’ora. È domenica e non c’è troppo traffico. Primo e Franco corrono al loro treno. Io, Astrid e Laura andiamo con calma a prendere il nostro, che avevamo prenotato per un orario più comodo. Anche per questa volta la nostra ormai storica Periegesi si è conclusa.
Alcuni ricordi di questo 2012
Primo giorno a Rodi. Con Alberto e Floriana siamo seduti al bar davanti al museo archeologico in attesa che i compagni escano alla spicciolata. Arriva Riccardo, ci vede e subito beve d’un fiato la birra della signora olandese seduta accanto a noi (!), credendo che sia nostra.
La signora si risente e tutti scappiamo.
Franco ha visto un raro esemplare della Fiat “Siena” e subito esclama: “Ne hanno fatto tre sole e le hanno vendute tutte in Turchia!”
A pranzo sul mare a Simena, Riccardo si complimenta con Concetta che funge da amministratrice, e la chiama affettuosamente “il nostro ministro del Tesoro”. “Passera!” esclama felice Franco.
Dice Alberto: “In realtà Cnido è un cnome della Cnestlé”.
Mi fa venire in mente quel manifesto elettorale di tanti anni fa, bordato di rosso, con un’unica scritta in campo bianco: “Perché PSI ”. Qualcuno aveva aggiunto col pennarello “perché pno!”.
[1] Se il ‘Catalogo delle navi’ fosse un’enumerazione molto antica, poi inglobata nel testo epico (il genere delle elencazioni di dinastie e popoli di solito appartiene alla fase più primitiva della poesia), allora la citazione di Tlepolemo Eraclide coi Rodii potrebbe essere stata un’aggiunta più recente alla materia tramandata e arcaica, un’aggiunta di poco precedente a Omero o contemporanea, perché Rodi dorica non era una realtà antichissima.
[2] Mi ricordo quello piccolo e delizioso di Priene, coi seggi marmorei in prima fila.
[3] È impressionante quanto sia stata travagliata la storia di questa isoletta. Tralascio le ribellioni ai Turchi e ai Veneziani nel XVII secolo. Fra il 1828 e il 1833 volle unirsi alla Grecia indipendente, ma invece ritornò a far parte dell’impero ottomano fino al 1912; in quell’anno gli abitanti chiesero di essere annessi al resto del Dodecaneso italiano, ma non ottenendo l’annessione, si ribellarono e imprigionarono il governatore turco! Nel 1915 respinsero le forze greche, mentre una nave francese occupava l’isola. I Turchi cominciarono a cannoneggiare l’isola, e affondarono una nave britannica. Alla fine l’isola fu assegnata all’Italia nel 1921. Nel 1932 tutti gli isolotti disabitati del piccolo arcipelago passarono alla Turchia. Durante la guerra fu occupata nel 1941 da dei commandos britannici, e poi ripresa dagli italiani. Dopo l’8 settembre 1943 fu rioccupata dagli Alleati, e col trattato di Parigi del 1947 Kastelorizo fu unita alla Grecia; la cerimonia formale dell’unificazione avvenne l’anno dopo.
[4] La Via Egnazia univa le due capitali dell’impero e arrivava dritta a Costantinopoli. Sarebbe un percorso dedicato in buona parte alle montagne: il Pindo e il Rodope. Rivedere il monte Pangeo. Vedere la gola del fiume Bikos (parco nazionale col famoso canyon o gola o φαραγγι piena di echi) in Epiro, la valle del fiume Aoo, la Zagorichora, il passo di Metzovo e i suoi costumi, la città di Kastoria con gli edifici di stile turco dei tempi di Alì Pascià. Sul confine albanese c’è il lago di Ochrida. Salire sul Rodope, le montagne rimaste intatte sul confine bulgaro. In Tracia scendere a Kavala, prendere il traghetto per la bellissima isola di Taso (magnificata anche nel libro di Zanetto, oltre che da Teresa). Poi traversare l’Ebro, il più bello dei fiumi secondo Alceo, che oggi segna il confine turco. Passare vicino a Adrianopoli, dove nel 378 morì l’imperatore Valente sconfitto in battaglia dai Visigoti (e qui potrei raccontare varie cose). Infine Costantinopoli! a cui dedicare almeno 3 giorni.
[5] È stata studiata nel 1977 dall’italiano Onofrio Carruba, in un suo articolo apparso su «Studi Micenei ed Egeo-Anatolici» numero XVIII, coi suoi commenti sulla trilingue. Gli studi fondamentali sulla lingua licia più recenti sono i glossari del licio di H. Craig Melchert, Dictionary of the Lycian Language (Ann Arbor 2004), e quello di Günter Neumann, Glossar des Lykischen, Wiesbaden 2007.